Storia degli Scalpellini
Nel territorio di Sant'Ippolito si
trovavano cave di pietra arenaria di un bel colore giallo e
azzurro, sia del tipo "gelivo", cioè non resistente alle intemperie,
sia di quello "non gelivo". Ciò permetteva di sviluppare una ricca
produzione per interni (camini, cappelle, altari, balaustre, ecc.) e
per esterni (balconi, cornici di finestre di finestre, portali,
stemmi).
L'abbondanza di questa materia prima favorì la nascita di una fitta
rete di botteghe artigiane altamente qualificate che lavoravano per un
mercato di gran lunga sovracomunale facendo acquisire prestigio e
notorietà al paese. Uno dei primi scalpellini risulta essere stato
quell'Aimonetto da Sant'Ippolito, che nei primi decenni del XIV
secolo si recò ad Avignone a lavorare presso il Palazzo dei Papi, dove
fervevano gli interventi di ampliamento dell'imponente edificio. Uno
scambio di esperienze davvero significativo si ebbe nel XV secolo
durante il dominio del Duca Federico da Montefeltro
(1422-1482), che chiamò a lavorare alla sua corte artisti di varia
provenienza. Oltre al grande architetto senese Francesco di Giorgio
Martini, vanno ricordati il dalmata Luciano Laurana, il fiorentino
Domenico Rosselli e una schiera di "maestri lombardi" dell'arte della
pietra. Essi influenzarono molto la qualità artistica degli
scalpellini di Sant'Ippolito, dove alcuni di tali "maestri" andarono a
vivere.
Le loro opere non furono concentrate
nella sola capitale (Urbino), né nel pur splendido palazzo ducale
("una città in forma di palazzo"), ma disseminate nelle altre corti
ducali di Fossombrone, Cagli, Gubbio, Casteldurante, nelle principali
città dello Stato e nei palazzi dei dignitari della corte federiciana.
Fra le tante opere da loro realizzate
va ricordata la famosa cappella dei Della Rovere, fatta
costruire nella basilica di Loreto dal duca Guidubaldo II e
completata dal figlio Francesco Maria II. L'altare e le principali
decorazioni vennero realizzati in pietra bianca del Metauro, finemente
lavorata da cinque artisti di Sant'Ippolito (i fratelli "Pierfrancesco,
Matteo e Gabriello di Maestro Hippolito", "Costantino di Maestro
Agostino et Anfranio di Thomasso" suoi nipoti) condannati alla pena
capitale per omicidio, ma ai quali il duca salvò la vita per la loro
capacità artistica. L'altare originario della cappella venne
sostituito con uno in marmo nel 1789.
Se la pietra arenaria nei secoli
XIV-XVII andò per la maggiore, è pur vero che dalle Cesane e dal
vicino Metauro era estraibile una pietra bianca con venature
dall'apparenza del marmo, anch'essa molto ricercata. Inoltre il
territorio di Sant'Ippolito e quello di Isola del Piano avevano anche
cave di gesso. Ciò portò ad una specie di triangolazione di
artigiani fra Sant'Ippolito, Fossombrone e Isola del Piano con
passaggi dall'una all'altra località, ma lasciando comunque a Sant'Ippolito
il primato della bravura e della notorietà.
Questa grande varietà e disponibilità
di cave permise agli scalpellini di Sant'Ippolito di adeguarsi
facilmente al variare delle mode architettoniche, delle decorazioni e
del gusto. Non a caso il conte Giuliano Tenaglia nella seconda metà
del '700 così parlava di Sant'Ippolito: "Questo castello è
specialmente stimato per le sue pietre e cave sotterranee, e
specialmente di pietra di gesso nominata, che a guisa di marmo bianco
e nero serve per le balaustre delle cappelle di chiese e conci di
porte; e l'altra pietra bianca, quale tenera allo scalpello e durevole
all'ingiuria dei tempi, massime al coperto, con la loro vaghezza serve
mirabilmente per gli ornamenti delle fabriche, conci di finestre e
porte ed anno un grandissimo esito per la Marca e Umbria".
Ecco allora nel 1770 Gianandrea
Ascani, uno dei più importanti scalpellini-artisti-imprenditori di
Sant'Ippolito, vantarsi di dare lavoro a tanta gente ("da circa 18
anni sono in mia bottega di continuo 35 uomini") a testimonianza
del grande successo dovuto all'alta professionalità raggiunta ("le
mie opere le decantano per tutta la Marca ed in moltissime altre città").
Non si trattava dunque di
esagerazioni o millanterie, così come non lo erano quelle degli altri
concorrenti-rivali, quali gli Almerici, i Dini, i Guerra, i Lisi, i
Nicoletti, i Passarini i Madami, i Rossi, i Sartorelli, e,
soprattutto, i Rodoloni e i Trappoli. Nelle botteghe artigiane
settecentesche si lavoravano molto sotto forma di impellicciatura
anche i marmi provenienti dai colli euganei: essi giungevano per barca
fino al porto di Fano e da lì sopra birocci tirati da buoi risalivano
la valle del Metauro. Con gli stessi mezzi di trasporto i manufatti
raggiungevano le città di destinazione.
Questa intensa attività artigianale
ha visto gli scalpellini in ruoli diversi: a volte veri e propri
scultori, in altre semplici intagliatori, spesso esecutori di modelli
altrui, in altre occasioni in grado addirittura di produrre propri
progetti, originali nella forma e personalizzabili su richiesta del
cliente.
Fu grazie alla presenza di "circa 20
officine nelle quali travagliavano gli artieri nei lavori di marmo"
che nel 1853 venne scelto di far passare proprio per Sant'Ippolito il
tracciato della strada provinciale che doveva unire le valli del
Metauro e del Cesano.
Il radicale cambiamento verificatosi
agli inizi del '900 sia nel materiale usato per le costruzioni, sia
nel gusto delle decorazioni portò a termine la crisi da tempo presente
nel settore degli scalpellini, che furono così costretti a emigrare in
cerca di lavoro a Rimini, Assisi, Ancona, Frascati, Fano, Velletri e
addirittura in Inghilterra e negli Stati Uniti. Altri, rimasti a Sant'Ippolito,
continuarono la lavorazione della pietra, producendo lapidi funerarie
e oggetti di scarsissimo valore artistico, come acquai e abbeveratoi,
fino alla totale scomparsa dell'attività.
Certo restavano i palazzi di
abitazione degli scalpellini, erano ancora visibili sul posto le loro
opere, rimanevano fermi nella memoria dei contemporanei il ricordo del
loro lavoro, le tecniche adoperate, i modelli preparati, il desiderio
di salvare quella tradizione, l'auspicio che essa potesse prima o poi
rinascere.
Con la decadenza dell'arte degli
scalpellini venne meno anche l'attività di estrazione della pietra
dalle cave di arenaria, mentre è continuata ancora per molti decenni
quella delle cave di gesso, adoperato per ottenere gessetti da
lavagna.
(da "Sant'Ippolito - Il Paese
degli Scalpellini"
di R. Savelli e A. Belacchi - 2000 - Comune di Sant'Ippolito) |
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